sabato 9 novembre 2013

Marcello Candia


“Laggiù ho trovato la mia famiglia”, diceva Marcello. “Ci sono tanti bambini abbandonati, che non hanno niente. Se non li aiutiamo noi, possono morire di fame, di malattie, di sofferenze. Dio è Padre di tutti. Ci ha insegnato che ogni uomo è nostro fratello. E io considero quei bambini abbandonati e lebbrosi come miei figli”.

Era nato in una famiglia ricca. Suo padre, Camillo, laureato in chimica, nel 1906 aveva fondato la "Fabbrica italiana di Acido Carbonico", che fece la fortuna della famiglia. La madre di Marcello, Bice Busatto, era una donna di grande fede religiosa. Più volte Marcello disse che erano stati i suoi genitori a educarlo nell'amore verso gli altri. Soprattutto la madre.

A 17 anni venne colpito da un gravissimo lutto. Perse la madre, che morì per una polmonite. Entrò in una profonda crisi depressiva. Si rifiutava di mangiare, non voleva più vivere. Ma poi quel brutto periodo finì. E in ricordo della bontà della madre, decise di dedicare la sua vita agli ideali di altruismo che lei gli aveva insegnato.


Pensava di diventare missionario. Prima, però, voleva concludere gli studi, perché era convinto che con una laurea avrebbe servito meglio i poveri.

Nel 1939 si laureò in Chimica pura e un anno dopo in Farmacia. Poi scoppiò la guerra. Il suo sogno di diventare missionario dovette così aspettare. Nel 1941 fu chiamato sotto le armi, dove rimase fino al 1943. Nel frattempo continuava a studiare e nell'ottobre del '43 conseguì la sua terza laurea, in Scienze Biologiche. Terminata la guerra, il padre si ammalò e Marcello dovette prendere in mano la direzione della ditta.

Si buttò a capofitto in questa nuova attività. Era un organizzatore formidabile, aveva una straordinaria capacità negli affari e sotto di lui, l'azienda paterna andava a gonfie vele.

Nel 1955, gli parve fosse giunto finalmente il momento tanto atteso.

Ma, mentre si stava preparando a dare la notizia ai suoi familiari, ecco un nuovo ostacolo. La notte del 22 ottobre 1955 il suo grande stabilimento chimico venne distrutto da un incendio. Decine di operai rischiavano di rimanere senza lavoro. Marcello capì che non poteva abbandonare quella gente nelle difficoltà. Rimandò ancora il suo viaggio. “Ricostruiremo tutto”, disse agli operai “nessuno di voi resterà senza lavoro”.

Si mise all'opera, con quella grinta e con quella incredibile resistenza alla fatica che lo distingueva. In dieci anni, lo stabilimento ridivenne un gioiello di efficienza e modernità. Adesso poteva andare avanti da solo. E, finalmente, nel 1965 Candia vendette tutto quello che aveva e partì per il Brasile.

Per prima cosa, si dedicò alla costruzione di un grande ospedale, al cui progetto aveva cominciato a lavorare mentre era ancora in Italia. Quell'opera resta ancora oggi il massimo complesso ospedaliero dell'Amazzonia brasiliana.

Mentre organizzava, progettava e seguiva i lavori, Candia doveva anche preoccuparsi di trovare i soldi, non solo per la costruzione, ma anche per il funzionamento di quei centri. Marcello lavorava diciotto, venti ore al giorno. Cominciò ad accusare disturbi al cuore. I medici gli dicevano che doveva riposarsi e lui rispondeva che i suoi poveri avevano bisogno di lui. Continuò perciò la sua attività, senza mai diminuire il ritmo frenetico. Ebbe cinque infarti. Nel 1977, fu sottoposto ad una delicatissima operazione chirurgica nel corso della quale gli vennero applicati tre by-pass. Ma neanche quell'intervento lo fermò.

Quando Giovanni Paolo II, nel 1980, andò in Brasile, volle visitare il lebbrosario di Mariturba, che è una delle grandi opere realizzate da Marcello Candia. Il Pontefice continuava a guardare in giro e, ad un certo momento, disse: “Ma, insomma, dov'è il dottor Candia di cui ho tanto sentito parlare?”. E allora tutti si guardarono intorno e si accorsero che Marcello Candia, l'autore di quelle belle opere a favore dei lebbrosi, non era nel gruppetto delle personalità che erano state presentate al Papa. Marcello era dietro a tutti, che conduceva la carrozzella di un lebbroso, un uomo senza mani e senza piedi, orribilmente mutilato anche nel viso. Candia aveva un ventaglio in mano e lo agitava intorno a quel povero troncone umano, per alleviare il fastidio del caldo che in quel momento raggiungeva i 45 gradi all'ombra. Il lebbroso, dato che era senza mani, non poteva usare il ventaglio. Quando il Papa li vide, capì quanto fosse grande la bontà e la delicatezza d'animo di Marcello. Gli andò incontro senza dire una parola per la commozione. Lo abbracciò e gli diede un bacio sulla fronte.
Marcello dormiva pochissimo: quattro, cinque ore al massimo. Al mattino si alzava alle cinque e trascorreva alcune ore in chiesa, a pregare e a meditare. Benché fosse un laico, dedicava alla preghiera molte ore al giorno.

Marcello seppe di avere un cancro nel 1981, cioè due anni prima di morire. I medici gli dissero la verità, ma egli volle continuare a vivere come sempre, senza parlare con nessuno della sua malattia.

Quando si rese conto che tutto era finito, prese l'aereo e tornò in Italia.

Il cancro al fegato provocava dolori tremendi, ma egli sopportava tutto senza mai lamentarsi. Gli infermieri, i medici non riuscivano a rendersi conto come facesse a resistere senza gridare, urlare, disperarsi.

Morì mercoledì 31 agosto 1983, alle 17.30.

Il 12 gennaio 1991 si aprì il processo diocesano per la causa di canonizzazione di Marcello Candia, che si è concluso l’8 febbraio 1994. E’ ancora in corso la seconda fase del processo, quella presso la Congregazione dei Santi in Vaticano.

di Pietro Pomatto

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